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U-TURN - INVERSIONE DI MARCIA
(U-TURN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 1 febbraio 1998
 
di Oliver Stone, con Sean Penn, Jennifer Lopez, Nick Nolte, Powers Boothe, Clare Danes, Jon Voight (Stati Uniti, 1997)
 
In una di quelle decappottabili coloro ciliegia che piacevano tanto agli iperrealisti, in fuga dai soliti killer che gli reclamano gli altrettanto soliti debiti di gioco, Sean Penn sta attraversando il deserto dell'Arizona; quando, proprio nelle vicinanze di un garage fatiscente sotto la polvere, la sua Mustang proprio non ce la fa più a continuare.

Fine della road-movie, alla quale ci si poteva attendere. E inizio di un film che forse non t'aspettavi dalla parte di un regista che solitamente si dedica al socio-umanitario genere JFK o NATO IL QUATTRO DI LUGLIO: il poliziesco-western melodrammatico, a forte impronta formale ormai definita come postmoderna, tipo David Lynch o Tarantino tanto per intenderci.

Nel senso che, a partire dallo strambo garagista che comprendiamo subito non gli aggiusterà mai quel rottame californiano, sarà tutto un seguito di personaggi-situazioni da incubo, destinati ad imprigionare il nostro in quella cittadina perduta nel deserto. Perché se Oliver Stone cambia registro dopo il serioso e fin troppo impegnativo NIXON, più difficile è che gli riesca di modificare la propria forma mentis: che rimane sostanzialmente quella di un paranoico, capace del meglio come PLATOON, o del peggio come ASSASSINI NATI.

Primo incontro per le strade di quella maledetta Superior sarà allora quello con una meticcia mozzafiato (Jennifer Lopez, prendere nota), dalla quale tutti, a parte il nostro scombiccherato Sean Penn avrebbero diffidato, visto l'urgenza con la quale sembra attirarvi in camera da letto. Difatti, non tarda a subentrare quell'energumeno di Nick Nolte nei panni del marito della signora; che fa di peggio che spaccargli il muso. Da cui, fuga nell'accogliente drug-store, ma ahimè proprio nell'istante in cui irrompono brutti ceffi con il mitra spianato. Pure la ninfetta dalla faccia pulita che pare innocua, finisce che s'accompagna ad un amichetto dalla gelosia iperviolenta; e lo sceriffo, che forse è l'ultimo al quale il nostro fuggiasco avrebbe voluto chiedere consiglio, appartiene a quella specie di ossessi capaci di ogni degenerazione.

L'avrete compreso, U-TURN è un film di quelli che si definiscono a scatole cinesi: dove ogni situazione ne apre un'altra, secondo quel principio di drammaturgia spicciola che voleva che ogni padella fosse destinata a far ricadere l'eroe nella relativa brace.

Ma Oliver Stone non è certo lo Scorsese di AFTER HOURS. E le disgrazie paranoiche del suo protagonista si fanno subito pretesto a quelle libertà stilistiche che lui predilige: esercizi di stile che, sulle musiche cosi Sergio Leone dipendenti di Ennio Morricone, spediscono subito questo giallo sulle tracce del western dapprima, del melodramma sensuale frammisto all'horror, infine. Personaggi-archetipi, che il regista, in una bulimia di piacere più o meno controllato, spedisce allegramente, più che nella fatalità alla James Cain, verso la sensualità e la morte di un finale che ricalca quello mitico del King Vidor di DUELLO AL SOLE. Ma se lei non è Jennifer Jones, tantomeno lui assomiglia a Gregory Peck: ché ci ha pensato Stone ad allucinare le cose con tutti i mezzi (inquadrature, montaggio, colore, persino una poco usata pellicola invertibile, destinata a rendere le tinte ancora più crude, i chiaroscuri ambigui, le illuminazioni lancinanti).

È in parte bello ed esaltante. Perché Stone filma con un'avidità che non può che contagiare, gli attori sono, oltre che bravi, insoliti e stanno al gioco. Ed il grottesco sembra farsi da parte, per avviare il film in una spirale di autodistruzione che non sarebbe poi cosi estranea allo spaccato della società che l'ha generata.

Solo che diventa difficile frenare, in questi casi per non finire, quasi inevitabilmente, sopra le righe. U-TURN ci finisce, e come: ma vi confesso che, in un'epoca di creatori-farmacisti con il misurino e la calcolatrice del botteghino come il Levinson di cui sotto, la mia simpatia tende piuttosto dalle parti della generosità ingorda degli egocentrici alla Oliver Stone.


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